A chi non è capitato nel corso della propria vita di desiderare anche solo per un attimo di cambiare una propria abitudine o il proprio modo di essere? Per qualcuno perdere qualche chilo, per qualcun altro diventare finalmente ordinato o, ancora, smettere di fumare. Facendo un rapido balzo in avanti nel tempo è facile vedersi più magri o con la pelle luminosa senza fumo. E poi? E poi che succede una volta arrivati lì? Cosa si deve fare ancora?
Ecco l’immagine dell’atleta che corre la sua maratona: si prepara per mesi, magari per anni, si trova sulla linea di partenza e impegna ogni energia, ogni muscolo del corpo e delle mente per raggiungere l’obiettivo tanto agognato. Fotofinish! Vince. E poi?
Ciò che osservo con curiosità sono gli istanti appena successivi al taglio del traguardo. Gli atleti rallentano la corsa e per inerzia balzano in avanti ancora qualche metro per poi fermarsi ed esultare. Sembra che tutte le fatiche ed energie si siano dissipate in quell’istante. Viene dato uno strappo finale alla corsa per poi fermarsi pochi secondi dopo. A volte accade la stessa cosa quando ci si impegna tanto e a lungo per cambiare qualcosa di sé: si lavora con costanza e dedizione fino ad arrivare a raggiungere le proprie previsioni di successo con il rischio intrinseco di fermarsi come il corridore al termine della competizione. È ciò che succede quando si perde peso e a distanza di tempo lo si riacquista, magari con gli interessi, o si smette di fumare e si riprende a farlo in un periodo di forte stress.
Di quali risultati si tratta? Di chi sono: tuoi o di qualcun altro?
Proprio in questi giorni sto leggendo un romanzo (Le ricamatrici della Regina, Jennifer Robson) che non sembra aver nulla a che fare con risultati da ottenere e obiettivi da mantenere eppure il racconto dell’impresa di due giovani ricamatrici nell’immediato dopoguerra a Londra mentre confezionano il vestito per le nozze della Regina Elisabetta non ha pari.
“Preoccuparsi di cosa ne sarebbe stato del suo lavoro una volta ultimato era una perdita di tempo, si disse. L’importante era l’atto della creazione”.
Mi ha colpito questa affermazione di una delle protagoniste perché, come terapeuta, ciò che mi interessa, pensando alla vita e ai progressi delle persone, non è il risultato finale (posto che ce ne sia uno) ma il processo che porta le persone stesse verso gli obiettivi prefissati. Preferisco focalizzare l’attenzione su molti più elementi che non sul singolo “risultato”; ad esempio, a chi condivide con me passaggi di cambiamento domando:
“come ti fa stare l’idea di modificare un tuo modo di essere?”
“per chi stai cambiando? per te o per qualcun altro?”
“ chi si è accorto del tuo cambiamento?” o, ancora,
“cosa succederebbe se perdessi i risultati ottenuti?”.
Questo perché ogni essere umano è unico così come lo sono la sua storia e le sue scelte: ciò che porta una persona a cambiare è anche ciò che potrà aiutarla a mantenere gli obiettivi raggiunti o, al contrario, a tornare al “punto di partenza”.
Ad esempio, se si cerca di cambiare per qualcun altro, come può accadere quando si dimagrisce pensando di poter piacere di più al partner, il rischio è almeno duplice: quando l’altro non è altrettanto interessato si rischia di rimanere delusi dalla sua reazione o non ricompensati della fatica fatta per compiacere; se la storia dovesse interrompersi verrebbe meno una motivazione e lo stress accumulato potrebbe portare a sfogarsi con il cibo per appagare frustrazioni e fatiche passate e presenti. È vero che la spinta gentile alla trasformazione può essere data dalla relazione ma la differenza sta in quanto la spinta si trasforma in un cambio reale di funzionamento della persona (che ha così più probabilità di essere duraturo nel tempo) e che diventi così parte integrante del suo essere.
Cosa non ci aiuta a mantenere i risultati.
Non amo le ricette preconfezionate per cui non starò a “svelare” ingredienti che possano garantire la durata nel tempo di progressi ottenuti perché per ciascuno la strada è differente e ciò che funziona per una persona non è detto che lo faccia per un’altra.
Mi fa piacere condividere delle riflessioni su ciò che ritengo possa ostacolare il mantenimento dei risultati ottenuti, dopo investimento di tempo e fatiche.
Cambiare per gli altri non è una motivazione
Come anticipato, cambiare per altri non è una motivazione sufficiente a sostenere il processo di evoluzione né tantomeno il “mantenimento” successivo; spinta autentica e motore al cambiamento siamo noi stessi, con i limiti e i tempi che decidiamo al di là del giudizio altrui.
Cambiare non è un evento estemporaneo
Cambiare è una decisione, non un evento estemporaneo ed è importante pensare e calibrare ciò che è giusto per noi senza farsi sedurre da obiettivi troppo lontani da ciò che siamo, perché la delusione è dietro l’angolo così come il tornar indietro.
Non possiamo considerare allo stesso modo tutti gli obiettivi di cambiamento: alcuni sono “più facili” da raggiungere, altri richiedono una pianificazione più complessa e una consolidata motivazione. Quando il lavoro si preannuncia più complesso la solitudine può diventare una prigionia frustrante e demotivante; invece, portare avanti qualcosa di faticoso e condividerlo con qualcuno può diventare esso stesso un bellissimo obiettivo di benessere.
Ostinarsi può risultare controproducente
A volte non si riesce proprio a modificare quel qualcosa di noi che non ci piace e che vorremmo sostituire con qualcosa di più utile, magari accade ma per un tempo molto breve; attenzione: ostinarsi può risultare controproducente (oltre che avvilente). Se ciò accade significa che la paura di cambiare è più forte del desiderio stesso di farlo: è come se un rinnovamento di noi porti con sé la paura di “perdere qualcosa” che in modo inconsapevole è qualcosa di importante. In questi casi l’errore è quello di non chiedere aiuto a un professionista, con il quale è possibile (oltre che bello) lavorare verso obiettivi e traguardi stabili.